Dove sono le macerie?

Hayez, Il bacio


Mi capita di ascoltare testimonianze, che condivido pienamente, su quella che definirei l’aura fantasmagorica in cui siamo immersi in questi giorni, bombardati da un flusso d’informazioni — un sapere del tutto privo di conoscenza, di esperienza diretta — che paiono svuotare gli eventi perfino della loro drammaticità, per ridurli ad artefatti. La dimensione di quello che sta accadendo mi sfugge, e quanto più se ne asserisce l’assoluta, comprovata gravità a suon di numeri e statistiche, tanto più essa mi appare fantasmagorica.

Si badi che non sto affatto “negando l’epidemia” — o, come scrive Agamben, postulando “L’invenzione di un’epidemia” (attenzione a non semplificare) —, sto solo descrivendo una situazione assurda (e probabilmente tutta personale), che peraltro mi irrita non poco e mi appare perfino blasfema.  

Lo sconcerto, che si potrebbe troppo facilmente qualificare ingenuo, di un vecchio Alpino che aveva prestato soccorso volontario a Gemona del Friuli durante il terremoto, mi ha fatto riflettere. «Dove sono le macerie?», andava esclamando, ovvero: «Sono qui, pronto, ancora una volta, ad accorrere in aiuto del mio prossimo, ma dov’è questo prossimo, e dove posso accorrere, e cosa posso fare? Tutto è esattamente “in piedi” come sempre, e quello che mi si chiede è di stare confinato in casa, di sfuggire il mio prossimo e per giunta di essere più che mai terrorizzato perché “sono anziano”». Dove sono le macerie?

Il coronavirus sembra essere un prodotto esemplare della “società dello spettacolo” al tempo del capitalismo neoliberale: gli infettati, le persone che soffrono ricoverate in terapia intensiva, i morti, sembrano sdoppiarsi in una Rappresentazione che li sottrae alla realtà, di cui tutto ciò che sappiamo (o meglio, di cui siamo informati) è una sigla: “covid-19”, calamità invisibile che è ovunque e da nessuna parte. Ricordo una scena del film Sogni di Kurosawa, dove un plotone di soldati giapponesi, più disperati ed esasperati, o folli, che terrorizzati, “combatte” contro un nemico invisibile e micidiale, le radiazioni, menando sciabolate al vuoto.

A fronte di questa fantasmagoria, che non è priva — duole dirlo, per rispetto alle persone colpite e al prodigarsi del personale medico — di una nota grottesca e surreale (soprattutto se si pensa che l’epidemia è mondiale), le misure di emergenza imposte dai decreti ministeriali, tutto l’apparato delle Forze dell’Ordine che li fa rispettare, e il susseguirsi dei comunicati più o meno ufficiali, sono invece ben tangibili, al punto che li utilizzo come presupposti per dedurre la realtà dell’epidemia “in assenza di macerie”. O forse le macerie devono essere cercate su di un altro piano, per così dire “trascendente”?

Non dubito che ci saranno anime benevole pronte ad augurarmi di “beccarmi il virus”, così che possa constatarne la realtà indiscutibile; e tuttavia, anche in quel caso il senso di assurdità non cambierebbe: sarei semplicemente informato del contagio e il mio decesso o la mia guarigione rimarrebbero completamente astratti, buoni solo ad aggiungersi alle statistiche.

Sto camminando sul filo del rasoio, senza scongiuri: si faccia uno sforzo per comprendere che quella che può sembrare una provocazione (mio malgrado è così che mi appare) è dettata dalla situazione creatasi, e che mi crea il più grande imbarazzo.

È la natura tutta peculiare dell’epidemia virale — un “reale” piuttosto ostile, finora, a essere simbolizzato, e che sfugge al sapere —, o sono le misure organizzative a tutela della pubblica salute a mettermi in questo strano imbarazzo? (Si noti che questo dilemma getta forse una luce insospettata sulla “psicologia dell’imbarazzo”).

Poiché del virus non so nulla, punto sul secondo corno dell’alternativa ed entro in un terreno più rassicurante di quello sconcertante — per non dire sacrilego — battuto finora: è in politica che vado a cercare le macerie. Di colpo tutto si fa più serio (non devo certo evocare il “kafkiano” per ricordare i misteriosi rapporti tra l’assurdo e l’umorismo).

Eccoci dunque confinati e isolati nelle nostre case, preda della paura del contagio che fa dell’altro un nemico mortale, non senza il brivido di godimento offertoci dal fantasma dell’apocalisse.

Spaventati, terrorizzati, facciamo appello a un Altro che ci porti salvezza, ordine e sicurezza, completamente disposti ad accettare uno “stato d’eccezione” che ci appare più che legittimato dall’emergenza.

Ci viene continuamente ripetuto che l’unico modo per limitare il contagio è l’isolamento e la reclusione, ubbidendo a misure che limitano drasticamente le libertà costituzionali. Divide et impera, dividi e comanda, è da sempre il miglior espediente di una tirannide per controllare i popoli e mi domando quale evento più di un’epidemia non abbia le carte in regola per ottenere questo scopo.

Fra le tante voci che invocano “un inasprimento delle misure volute dal Governo”, o “l’intervento dell’esercito per piantonare i cittadini che non restano a casa”, o “il completo tracciamento tramite il cellulare degli spostamenti di contagiati e potenzialmente tali” (cioè tutti), mi limito ad annotarne una autorevolissima: «Bisogna che in tutta Italia si capisca che è necessario cambiare le nostre abitudini. Ho visto servizi sulla movida romana dei giovani che non è cambiata, ma essere stati a lungo in locali ancora aperti vuol dire che si può portare il virus a casa, ai genitori, ai nonni. Questi ragazzi non hanno visto cosa accade in Lombardia, negli ospedali, nelle rianimazioni in condizioni al limite assoluto di capienza. Se le vedessero non si comporterebbero in maniera così futile e irresponsabile». “Questi ragazzi”, «vivono la notte come se niente fosse, abbracciandosi e chiacchierando senza rispettare le nuove regole di comportamento».

Le nuove regole di comportamento, non sono più disposte a tollerare che ci si possa parlare, abbracciare, baciare — atti giudicati (da) irresponsabili —, e forse che si possa essere giovani.

Da qui l’invito a fare attenzione e a vegliare: non c’è solo l’emergenza della “pandemia”, ma ci sono anche le sue conseguenze su di un altro piano, che ci possono portare — attraverso il consenso che siamo disposti a dare ai Governi — all’istituzione di un Nuovo Ordine Sociale Globale, di cui tutto lascia credere che stiamo facendo le prove generali.

Dobbiamo resistere alla tentazione di ridurre l’epidemia a un fatto puramente e semplicemente medico, che può dissimulare completamente la sua portata politica.

Una cara amica, condividendo le mie preoccupazioni le ha esplicitate da par suo: «Non sarà l’inizio della fine… della democrazia? L’inconscio della collettività non si starà preparando (assuefacendo) al totalitarismo, alla diffidenza verso l’altro (travestita da spirito civico) e a una nuova dittatura?».

Vegliamo dunque anche sul “rovescio” dell’epidemia, sulla drastica riduzione delle libertà costituzionali, sull’imposizione di misure restrittive che, approfittando della paura, dell’angoscia, della confusione, dello sconforto, da temporanee e transitorie potrebbero diventare le nuove regole di comportamento della futura società.
 
Moreno Manghi (17 marzo 2020)


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