La musica sul nome di Freud Un tempo ci s’interrogava
sulla fine dell’analisi. Gli analisti attraverso un’elaborazione di cui vi è
ancora traccia nella loro letteratura; gli analizzanti ponendo a un certo
punto, più o meno esplicitamente, la domanda: «Come si finisce l’analisi?»
oppure: «Come si esce dall’analisi?». Segno, dunque, che si era varcata una
soglia. Una soglia che era
anche una scommessa: di cambiare la propria vita, di farla finita con la
menzogna e l’inganno, di sfuggire al proprio destino, di riacquistare la
sovranità del proprio desiderio, di riprendersi un avvenire pignorato, di
lottare perché l’amore non fosse ridotto a un sarcasmo. Il nuovo impulso
di Lacan aveva prodotto dei punti di riferimento non medici della fine
dell’analisi, che non poteva coincidere semplicemente con una restitutio quo ante della più che mai
dubbia “salute” e dell’ancor più dubbio “benessere”, miraggi fabbricati dalla
società capitalistica. L’analista non poteva prestarsi a un simile inganno,
che avrebbe tradito la domanda dell’analizzante ‒ per inconsapevole che
fosse ‒ di acquisire più verità su sé stesso: come avrebbe mai potuto
accettare, di sottoporsi a una prova
così dura, se non per vedere la trave confitta nei suoi occhi? Che cosa
nascondeva quell’insopportabile sintomo di cui chiedeva di essere liberato se
non un giudizio sul modo in cui si era lasciato ingannare e illudere da una
vita defalcata di ciò che era suo? Ma come avrebbe mai potuto, dopo
che i giochi erano fatti, e da tanto tempo, avere le forze per disfarli e
rimettere in questione tutti i suoi rapporti, cominciando da quelli
dell’infanzia? Chi era? Non era forse più facile continuare a ubbidire alla
ripetizione dei fantasmi che lo guidavano verso godimenti più o meno
clandestini e a buon mercato? Perché era lì, che cosa ci faceva in analisi?
Gli era forse diventato intollerabile continuare a cedere su tutto e non
riuscire mai a prendere una parola ‒ la sua ‒ che non
fosse quella di dire sì, sì, sì, o no, no, no a quella degli altri? O forse,
al di là delle promesse deluse di felicità, cercava la gioia, freude, nel nome di Freud? Ma a che prezzo? Che
gioia poteva mai esserci in quell’avanzare da solo alla scoperta di mille
tradimenti subiti e perpetrati? Perché
nient’altro che questo era la sua analisi, che metteva impietosamente
a nudo le proprie meschinità e vigliaccherie anche solo di fronte
all’impegno, così apparentemente modesto, di “dire tutto quello che passa per
la testa”. Per curarsi? Ben
presto, questo scenario terapeutico aveva lasciato il campo al racconto delle
vicende quotidiane della propria vita, in apparenza così triviali, ma che
tuttavia smascheravano ogni volta una questione etica dove, soffrendo, si
lacerava tra l’accampare ogni sorta di alibi per giustificare di aver “ceduto
sul proprio desiderio” e la ripresa della propria sovranità. Del proprio
erotismo. E gli altri?
Quelli che ogni tanto incontrava nella sala d’aspetto, cercavano quello che
cercava lui? Perché non lo aveva mai sfiorato il pensiero che al di là di
quel “movimento psicanalitico” ‒ questa “finzione”, come Rank ricordava
a un Freud ancora pieno di illusioni ‒ organizzato come un insieme di
società, associazioni, scuole (giuridicamente costituite con un proprio
statuto) di psicanalisti, esiste una comunità psicanalitica
fatta dagli analizzanti che però non hanno mai avuto nessuna
voce in capitolo, se non a titolo di pazienti. Che cosa
accomuna i membri di questa Gemeinshaft
che finora, a causa del divide et impera a cui gli analisti li hanno
sempre relegati (fino a espropriarli del loro nome o a ridurlo a quello di
animali) non ha mai avuto la consapevolezza di essere tale? Potrei
rispondere: un atto coraggioso e straordinario: accettare di parlare per
associazioni libere, rinunciando all’interlocuzione, alla comunicazione, al
“colloquio”. Questo significa destituire il discorso di ogni valore,
autorità, finalità e renderlo radicalmente “laico”. In altri termini, significa
che non si parla più “per” e “in nome di…”: in nome del bene, della
giustizia, della libertà, della democrazia, dell’equità, dell’uguaglianza…
della “causa psicanalitica”. Finalmente liberi dai significanti-padroni che
ci rappresentano, a cui ci identifichiamo e che ci comandano. Certamente, ma
questa presa di parola, in cui si intravede l’abbozzo di un nuovo e
stupefacente legame sociale, non cerca una libertà fine a sé stessa ma si
apre all’ascolto di… Di che cosa? Di
qualcosa che “la parola analitica”, come la chiama Blanchot,
custodisce. Forse quella
musica per cui Freud ha sempre dichiarato di non avere orecchio? Eccola, appena
percettibile, la sentite? La musica s’interrompe. Poi ricomincia
ancora, più forte. Dura più a lungo. Ma s’interrompe ancora. Da dove viene?
Che pena. Che immensa pena. Com’è difficile. Deve
attraversare, attraversare. Sì, tutto. La musica
ricomincia. Questa volta con un’ampiezza sovrana. S’interrompe
ancora. Ce la farà? Sì, eccola in
effetti, che travolge ogni ostacolo, abbatte i muri. Non c’è più
niente da temere. – È la musica,
la musica sul nome di Freud(e). |